Quando in libreria ho comprato “Molto forte incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer la commessa si è premurata di farmi presente che “i cerchi rossi attorno alle parole e le lettere sovrapposte che si trovano nel romanzo, non sono errori di stampa: il libro è proprio fatto così“.
Qualcuno deve aver riportato indietro il libro dopo aver notato queste strane circostanze tra le pagine. Circostante che rendono quello di Foer un romanzo che si può quasi toccare con mano, un documentario, una testimonianza, un resoconto della tragedia che ha più sconvolto l’Occidente proprio alle soglie del Ventunesimo secolo: l’ attentato alle Torri Gemelle.
Ho comprato questo romanzo su consiglio di una psicologa. Questo per fare presente quella che è la più azzeccata definizione che sono riuscita a trovare di “Molto forte incredibilmente vicino”: un romanzo psicologico che affronta i temi del dolore e della perdita e della ricerca di senso che segue la scoperta della morte, specie se a doverla affrontare è un bambino di soli 10 anni.
Oskar Shell, il protagonista, ha perso suo padre nell’attentato dell’11 settembre. Pochi mesi dopo trova tra le cose del genitore una busta bianca con scritto “Black” che contiene una chiave. Inizia così il viaggio del piccolo nelle contee di New York alla ricerca di una serratura che corrisponda alla chiave. Un viaggio che porterà Oskar a incontrare persone e conoscere storie, ma con cui il bambino cerca soprattutto di sopravvivere alla morte del padre.
Quello di Foer non è un libro facile. I piani di lettura, infatti, sono diversi: oltre alla storia del viaggio di Oskar, c’è quella che narra della sua vita prima della morte del padre e infine quella dei nonni che hanno vissuto la terribile esperienza della persecuzione degli ebrei in Germania. Quest’ultima, in particolare, soprattutto all’inizio non è chiara: il lettore si trova a leggere delle lettere che inizialmente non sa da chi e per chi siano state scritte e che pian piano capisce a chi appartengono e la storia che ha vissuto la mano di chi scrive.
E’ un romanzo, secondo me, che richiede concentrazione. Soprattutto nella prima parte ci vuole un po’ per entrare nella narrazione e capire l’intreccio che lega le vicende.
Fatta questa doverosa premessa, tengo a sottolineare che questo è senz’altro uno dei miei romanzi preferiti. E’ dolce, fa commuovere e sorridere. La storia è raccontata in prima persona da Oskar, quindi ci si imbatte spesso in un gergo infantile (anche se Oskar è un bambino geniale e intelligente) che la rende ancora più tenera. Penso che la scrittura e lo stile siano unici e facciano di questo romanzo un vero capolavoro. In più, quei cerchi rossi attorno alle parole, alcune pagine con le foto degli scatti che Oskar fa con la sua fotocamera e infine le ultime pagine (che non vi dico cosa ritraggono, credo sia giusto che lo scopriate voi) lo rendono un volume interattivo, come se si potesse vedere quel che i personaggi vedono, come stessero parlando proprio con il lettore.
Toccante, magico, poetico, ovviamente triste ma anche pieno di speranza. Foer è senza dubbio alcuno un genio.