Darius, va tutto bene (forse)” è il romanzo che consiglierei a tutti i genitori, prima di regalarlo ai propri figli.

Darius, infatti, è tutti gli adolescenti di ieri oggi e domani, è l’adolescente che tutti noi siamo stati.

Siamo stati Darius, quando non capivamo i nostri genitori e ci sentivamo schiavi delle loro aspettative; quando ci siamo sentiamo soli, goffi, fuori moda, quando venivamo presi in giro per il nostro modo di essere, per una caratteristica del nostro corpo che, improvvisamente, sembrava così ingombrante da non sapere dove e come nasconderla.

Siamo stati Darius tutte le volte che ci siamo sentiamo divisi a metà e una parte di noi non sapevamo proprio dove collocarla. Anche se poi era solo perché non l’avevamo ancora conosciuta davvero.

Trama di “Darius va tutto bene (forse)”

“Ti è mai venuto in mente che non ti prenderebbero in giro così tanto se non fossi così…”

“Così come, papa?”

Ma non ha risposto. Cosa poteva dire?

Fa bene, a noi adulti, leggere libri per ragazzi, aiuta a ricordarci dove siamo passati per arrivare fin qui. Ogni tanto dimentichiamo di quando ce ne andavamo in giro con quei corpi che sembravano improvvisamente non appartenerci più.

Darius è cosi. Non si sopporta e si definisce “un disastro di livello cinque“. Lo capiamo subito, fin dalle prime pagine, che si trascina nella sua vita da adolescente con svogliatezza e rassegnazione. Lo incontriamo al Paradiso del Tè, dove lavora dopo scuola, e subito dopo di lui e il suo capo, conosciamo Trent Bolger, il suo incubo peggiore, bullo per eccellenza che lo ha preso di mira (perché è piuttosto facile trovare spunti per bullizzare chi non si conforma o chi è diverso da noi).

E poi conosciamo suo padre, Stephen Kellner: “Papà lo dice sempre. Mai Ciao Darius, ma Darius va tutto bene?“.

Stephen Kellner rappresenta la metà americana di Darius, che è mezzo persiano da parte di madre. La parte per certi versi più simile, quella con cui lo accomuna il fatto di ” restare nell’ombra durante i raduni con gli amici della mamma”. Eppure Stephen e Darius non si capiscono e Darius ha la sensazione di deluderlo costantemente, che suo padre si vergogni di lui.

“Papà si lamenta di tutto quello che mi piace”, scrive.

Del resto non si sente vicino nemmeno alla parte iraniana, la madre non gli ha nemmeno insegnato il farsi, che invece conosce benissimo sua sorella minore Laleh, che nonostante abbia un nome più persiano del suo è molto più popolare di lui.

Insomma, faccenda complicata. Specie quando, all’improvviso, i suoi genitori decidono di volare in Iran. Un viaggio tutti insieme, con Stephen Kellner che controlla ogni suo sgarro alimentare (Darius stesso ci dice di essere un pochino sovrappeso) e che prenda sempre correttamente le medicine (Darius ci dice anche di soffrire di depressione, proprio come suo padre).

“Il tuo posto era vuoto”

“C’è un detto persiano. Tradotto diventa “il tuo posto era vuoto”. Lo diciamo quando ci manca qualcuno. Il tuo posto era vuoto prima. Ma questa è la tua famiglia. Questo è il tuo posto”

Ma lì dove Darius si aspetta di trovare diffidenza e lontananza, in realtà, scoprirà parole come “amicizia” e “amore”, il senso della parola “famiglia”.

Incontra Sohrab, il ragazzo della porta accanto, e tutto cambia.

Basta uno sguardo, bastano i silenzi a far capire a entrambi che stanno per diventare inseparabili.

I due cominciano a trascorrere insieme le giornate giocando a calcio, mangiando faludeh e parlando per ore su un tetto, il loro posto segreto con vista sulla città di Yazd.

Sohrab e la sua famiglia persiana iniziano a chiamarlo ­Dariush, quel nome che la mamma ha scelto per lui in onore di “Dario Il Grande”.

Dariush capisce che forse c’era una parte di lui che non aveva esplorato, che non aveva ancora capito.

Un turista nel proprio passato

Come potevo essere un turista nel mio stesso passato?

Poi c’è la vita degli adulti. Suo nonno che sta per morire, i suoi genitori pieni di sensi di colpa e convinti di aver commesso un errore via l’altro. La madre che si sente in colpa per non averlo portato prima in Iran, il padre che si sente in colpa per aver trasmesso la depressione al figlio…

E poi la famiglia di Sohrab, che dovrà affrontare qualcosa di ben più grande di lui… perché anche in Iran si può essere esclusi, specie se si appartiene e a una minoranza religiosa (Sorah e Bahà’ì).

Dariush continuerà a navigare nel mare del suo passato, un po’ a vista, un po’ guidato dagli altri. Imparerà che nella vita le cose non sono perfette, ma possono comunque andare molto bene. E imparerà che l’amicizia e l’amore possono davvero tanto.

Per Fariba Bahrami l’amore era un’opportunità, non un fardello.

Che voglia di Iran!

Darius, va tutto bene (forse)” mi è piaciuto davvero tanto. Darius mi ha fatto tenerezza e allo stesso tempo gli ho invidiato la forza di essere comunque se stesso, nonostante tutto. Forza che non sempre ho avuto da adolescente.

Una lancia la spezzo per la copertina: nella curatissima illustrazione di Pierpaolo Rovero compaiono tutte le meravigliose scene raccontate nel libro e sullo sfondo la città di Yazd, le Torri del silenzio, la Moschea del Venerdì e i muri color cachi.

Altra nota la dedico alla postfazione, in cui l’autore Adib Khorran racconta di quando, a dodici anni, gli è stata diagnosticata un disturbo depressivo. “Io sto ancora imparando a prendermi cura di me stesso e a prendermi cura di chi amo” scrive. “Se è così anche per voi, ricordate che i posti dove trovare aiuto esistono”.

Infine, se prima desideravo ardentemente un viaggio in Iran… ora scalpito!

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